Illustrazione di Elisa Braglia

La Statua

Un breve racconto dark romantic scritto lo scorso anno (30 dicembre 2013) per la mia ragazza, Myriam.
Oltre alla motivazione sentimentale, dal punto di vista squisitamente narrativo è un esperimento che mi auguro possa piacere. Elisa Braglia, che ringrazio, ha realizzato l’illustrazione appostitamente per questo racconto.

Uscirai da questo marmo, ti tirerò fuori da questo sarcofago. Somiglia a uno spoglio ovale, è vero; ma sarà il tuo viso, e sarà esattamente come quello d’un tempo.

Colpo dopo colpo, la tua bellezza riaffiorerà dalla pietra.

Martello e scalpello sgrossano, raspe e lime affinano. Ruvide le scaglie, secca la polvere tra le dita mentre la spazzo dal tuo viso e dalle tue fragili spalle. Sento la gola secca, la bocca impastata, ma riposare, dissetarsi? No, non ora. Non v’è motivo, e non v’è tempo.

Impaziente eppure preciso, meticoloso; così dovrò essere fino all’ultimo, se vorrò rivedere il tuo viso candido come questa pietra, i tuoi tratti aggraziati che tanto ho amato, tornare dalla tomba per meravigliare i vivi. Domani come ieri.

Perché mi hai fatto questo, amore mio? Perché m’hai abbandonato in questa solitudine mortale, in questa gabbia di sofferenza che tutti gli altri chiamano vita?

Piove, là fuori. Scroscia la pioggia contro al vetro, e qui dentro fa freddo. Solo il tepore della stufa ormai spenta impedisce alle mie mani di tremare, mentre t’affino le deliziose labbra con cui sorridevi felice.

Oh sì, non puoi sapere quanto ricordo quel tuo sorriso, quando esploravamo insieme il roseto in fiore della tenuta. Come un’ape balzavi di petalo in bocciolo, e danzavi tanto leggera che pareva non toccassi terra. L’umida erba ti lambiva i malleoli e scherzavi, ridevi, illuminavi tutt’intorno con la tua radiosa felicità mentre io ti chiamavo. «Myriam, fermati!» Gridavo, pregando il cielo che non lo facessi mai.

Cogliesti allora la rosa che ora riposa, cadavere, di fronte alla finestra. Era la più grande e bella e la trovasti tra mille e mille altre; me la regalasti senza nemmeno pensare di tenerla per te.
Secca ormai da tempo, velata dalla tela che risplende biancastra mentre il ragno, suo signore, si ripara tra i petali raggrinziti; ogni volta che la guardo è per me felicità e malinconia, speranza e angoscia. Quella rosa ho inciso tra le tue mani, ricalcando ogni petalo, così com’era quel giorno.

E questa dannata lacrima, perché proprio ora mi cade dall’occhio sul dorso imbiancato della mano, scavando questo solco arrogante nella delicatezza della polvere che mi ricopre la pelle?

Quale dolore nei polsi, quanto bruciano gli occhi. Quanto tempo sarà passato, mesi o anni, e saranno giorni o settimane che sono rinchiuso qui dentro? Ma il tuo corpo è ormai quello di allora, e solo il volto somiglia più a una maschera di cartapesta col sorriso stampato sul viso. Un carnevale gioioso nel tuo volto, un tetro dì dei morti nel mio.

Ti spiegai quanto il marmo sappia essere una pietra infida, spesso vigliacca, e ora che persino le ciglia devo scolpire attorno ai tuoi occhi da musa ti direi che sarebbe soltanto difficile, se non fossi sfinito. Devo concentrarmi, avere pazienza, o sarà tutto vano.

Mia madre mi volle artista, e chissà che non se ne stia pentendo dal mondo dei morti, vedendo ciò che sto facendo. Tu invece mi facesti pagano e ora uso ciò m’insegnasti. A un tempo per te e contro di te, che m’hai lasciato solo in questa esistenza. Pensavi che la mia vita valesse la tua? Sei stata una pazza, io non valgo niente. I tuoi riti blasfemi, fino a che punto t’hanno spinta?

Ma ormai tutto è cambiato. In queste arti m’hai istruito bene, forse anche troppo, così ho finalmente raggiunto il potere per restituirti ciò che deve essere tuo e ho trovato, nella cosa che meglio so fare, la giusta via per riuscire.

Arte e magia, non riesco a concepire due abilità umane che si sposino meglio, e grazie alla forza del mio amore per te oggi la mia potenza oscura quella di qualsiasi stregone passato e presente. Potessi usarla per altro scopo riuscirei, in un colpo, a salvare o distruggere il mondo.

Ma cosa m’importa dei destini dell’umanità, di re, borghesi e popolani? Che aprano le loro botteghe domani, che legiferino e che si lamentino, che non sappiano mai quanto la forza dell’amore sa essere potente, e al contempo discreta.

Me l’hai insegnato tu.

La notte s’approssima, le candele a stento bastano. Ma sento il mio cuore fermarsi guardando il tuo volto marmoreo che, dopo tanta fatica, è ormai perfetto. I tuoi occhi felici dalle pupille alle rughe attorno agli occhi, di cui solo le persone vuote si vergognano, questi zigomi e questi lineamenti, e questo tuo sorriso che nemmeno il miglior dagherrotipo saprebbe riprodurre per quant’è vitale, profondo, inarrivabile.

Mia amata, ecco che due passi indietro bastano per togliermi il respiro.

La posa gioiosa e innamorata è la stessa di allora, così come ogni tuo dettaglio. Come cade la tua chioma, par bionda ed soffice anche la pietra!

Le tue braccia sottili cingono il mio corpo invisibile, e la rosa rigogliosa che stringi tra le mani pare umida di rugiada.

Oh, io sono certo che saresti l’invidia di Canova e Sanmartino, e che colmeresti di meraviglia ogni scultore dall’antichità al neogotico. Ma loro, per mia fortuna, non ti vedranno mai in questa fredda forma.

Il Mosè non obbedì, quando il suo Maestro toscano gli chiese di parlare. Ma io sono qui, in ginocchio di fronte a te, con le mani insanguinate e gli occhi gonfi, a chiederti molto di più.

Per questo ti stringo in vita così come allora, e persino le mie dita sono un tutt’uno con gli incavi della tua morbida pietra.

E il tuo corpo addosso al mio, quasi tiepido seppur di marmo, e le spine della tua rosa che s’impigliano tra i miei capelli sciupati.

Sulla la tua bocca sorridente e umida, con l’ansia che m’uccide e il corpo che freme, poso le mie labbra d’amante eterno, e ti comando per la prima e ultima volta.

Non v’è felicità senza di te, non v’è niente per me in questa vita, e non m’importa cosa m’aspetta nell’altra.

Myriam, mia amata, baciami! Io ti comando di vivere ancora!

***

È stato un sogno, il mio?

La mia mente annaspa, confusa, tra sonno e veglia. Immagini, ombre e bagliori d’un mondo etereo riverberano come echi nella mia mente. E sagome erranti e fosche ho ancora davanti agli occhi, e ricordo che come loro io vagavo in quel nulla, come se davvero l’avessi vissuto.

Da quale strano sogno devo essermi destata, che ancora m’accarezza con le sue illusioni?

Eppure sono in piedi, e il freddo comincia a salire, dalle mani e dai piedi, che sento racchiusi come in calzari perfetti; stringo qualcosa: tra le mie dita piroetta una rosa secca, per quale motivo?

Non ha colore che non sia uno stanco nero, e non ha più profumo; ma ha un ragno tra i petali!

Ecco, l’ho lasciata cadere. Quando mai smetterò d’aver paura di quelle creature?

Ma che ci fai tu, amore mio, ai miei piedi? E che ci faccio io su uno dei tuoi piedistalli?

La rosa t’è caduta addosso, non hai visto il ragno? Non ti sei svegliato?

Forse stai male, sarebbe tremendo! Eccomi che arrivo, t’aiuterò subito.

Freddo. Perché sei così freddo? Avanti, apri gli occhi, respira!

Morto, per gli dèi. Come puoi essere morto? A vederti non sento nemmeno il mio cuore battere, ma sento invece un incubo tetro che ritorna.

Ora ricordo! Ma io t’avevo salvato, ne ero certa! Ho forse sbagliato il mio incantesimo? Il Dio dei morti non ha accolto la mia supplica, e ha lasciato che il tuo male ti consumasse? Eppure gli avevo promesso in cambio la mia vita, la mia anima! Io dovrei essere morta e tu dovresti essere vivo, a lavorare alle tue opere in questo stesso laboratorio!

Perché non sono riuscita nel mio sortilegio più grande, quello di salvare la persona più importante della mia esistenza, quella che ha dato un senso alla mia vita, ciò che ora non sento più?
Sei così freddo, quale pena il tuo corpo inerte che mi strazia di dolore, e mi precipita nel fallimento!

Niente mi potrà mai consolare ora che stringo il tuo corpo, sola in questo mondo meschino mentre il pianto scorre, inarrestabile, sulle mie guance.

Ma sto gelando, e solo ora m’accorgo: la notte è gelida, perché non ho addosso nemmeno un velo? Cos’è successo, cosa mi sfugge?

Polvere e frammenti attorno a me, e tu hai le mani insanguinate. I tuoi strumenti sparsi attorno al mio piedistallo; pazzo, ti sei ucciso di lavoro? Ma anche nella fioca luce delle candele riconosco i vestiti di quel giorno nel roseto, piegati su quella sedia. Dove li hai trovati?

Io sono certa, quella gonna ha ancora il profumo della rugiada. E fuori è pieno inverno: quella rosa sul davanzale, così fresca e vigorosa, dove l’avrai mai colta?

Ma no, m’inganno: quella rosa la colsi io, ed era piena estate! Io non capisco, ma cos’hai nel taschino di questo logoro abito? È una lettera, e porta il mio nome.

Mia amata Myriam, mi imponesti di vivere al posto tuo, e spirando tra le mie braccia mi chiedesti di realizzare ciò che più ardentemente desideravo.

Se stai leggendo questa mia lettera, vuol dire che ho esaudito la tua volontà. Spero di poterne gioire, quando prenderò il posto che mi spetta da allora.

Ho impiegato quindici anni, ma quest’oggi terminerò il mio capolavoro. Dietro di te c’è un telo rosso, scoprilo per me.

Per sempre tuo, con eterno amore.

David

Tendo la mia mano tremante, afferro questo drappo color del sangue, ed ecco che cade.

Le candele tremano, la loro luce mi colpisce attraverso il grande specchio, che cinico e sincero mi riflette. E il mio cuore, che fu pietra, di nuovo batte.

Illustrazione di Elisa Braglia
Illustrazione di Elisa Braglia

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